LA STORIA

DEMOGRAFIA ATTUALE

Castelfranci è un paese di 1.945 persone (ISTAT 2019), esteso per 12 kmq e confinante a Nord con Paternopoli; ad Est con Torella dei Lombardi, a Sud con Nusco ed ad Ovest con Montemarano. E' formato da 3 grandi aree le quali sono molto distaccate tra loro: la prima è rappresentata dal fulcro del paese che si racchiude in Via Capogiardino, che parte dal cimitero e sfocia in piazza Municipio, da qui parte il borgo che si articola lungo il pendio che porta alla zona dialettale di "abbascio a terra" o meglio Largo Soccorso, dove sono presenti il Santuario di Santa Maria del Soccorso, il rudere del mulino Baronale ed il Palazzo Vittoli; mentre la parte più elevata del centro del paese è rappresentata dalla zona dialettale di "Ncapo a terra" o meglio Sant'eustacchio; la seconda area comprende la parte collinare ad EST con Vallicelli-Braiole-S.Michele dove sono presenti la Cappella di Sant'Antonio e San Michele; infine la terza area è contrada Baiano che rappresenta tutto il territorio boschivo SUD-OVEST del paese e si divideva in "baiano basso", dove è presente "La Palata" ed il Vecchio Mulino Comunale e "baiano alto" che con i suoi 700m d'altitudine rappresenta l'acropoli Castellese.

LE ORIGINI

I reperti archeologici rinvenuti nel territorio di Baiano (contrada di Castelfranci) confermano l’insediamento già nel periodo romano di alcune tribù non molto numerose (i reperti sono per lo più oggetti tombali, ruderi o epigrafi).

Il territorio di Baiano ebbe una vita autonoma e il nome deriva dal latino Baebius (parola riportata in una lapide) mentre è pure documentato un fundus babianus (fondo babiano) divenuto vavianus e poi “vaiano” come tuttora si dice nel linguaggio popolare.

L’origine di Castelfranci, nella configurazione di borgo, è invece databile prima dell’anno mille e rivela un “modestissimo agglomerato di case e capanne, site a picco sulla riva destra del fiume Calore, in posizione naturale di difesa e vicino all’acqua.

Castrum Francorum - Castrum de Francis - Castel delli Franchi

Il toponimo di Castelfranci non ha un'origine certa e le ipotesi, vagamente documentate, sono diverse ma si può pensare a "Castrum de Francis". Castello dei Franchi potrebbe derivare dalla particolare posizione "neutra" posta a confine tra Benevento e Salerno. Quest'ipotesi è rafforzata da Giuseppe Passaro in Cronotassi dei vescovi della diocesi di Nusco del 1975 all'interno del quale parla di Castelfranci nella maniera che segue: "Piccolo vico in pendio alla base del versante destro dell’alto Calore divenne sito fortificato dopo il patto di versione tra Radelchi e Siconolfo. Quest’ultimo ebbe cura di garantire il suo Stato al confine con quello di Benevento nella valle superiore del calore donde, attraverso i monti di Acerno, sarebbe stato facile uno sconfinamento. Fu pertanto allestita un’opera di fortificazione nel territorio di Castel delli Franchi che, messa alla diretta dipendenza del Re Ludovico, fu dichiarata zona neutra”. Si ipotizza addirittura che lo stesso Re di Francia visito' e presiedette il territorio Castellese instaurando una piccola fortezza. Tale tesi è presente anche negli studi sulla storia dei Comuni dell'alta valle del calore di Francesco Scandone.

Dal Giustiniani (1705-1805, III, 297) emerge che anticamente fosse proprio una fortezza ed un presidio di soldati. Pertanto si rafforza l'idea che "Castrum Francorum" derivi dai soldati Franchi che lo visitarono anticamente rendendo verosimile l'ipotesi che Ludovico II accompagnato da una sua legione militare risiedette proprio nel territorio di Castelfranci, rendendolo una piccola fortezza di guardia nonché una zona franca, intesa come "neutra".

Uno dei documenti piu' antichi riguardante Castelfranci risale al 1248 ed è la bolla pontificia emessa a Lione il 6 Giugno con la quale il Papa Innocenzo IV restituisce a Bellae De Amicis, vedova di Guglielmo di Montemarano la terra di "Castrum de Francis" posseduta dalla famiglia De Montana.

I Castra (al singolare Castrum) erano accampamenti militari nel quale solitamente risiedevano in forma provvisoria o stabile legioni di eserciti, pertanto può rafforzarsi l'idea che Castelfranci nasce prima dell'anno 1000 come un castrum dei francis sicché il nome potrebbe derivare proprio da "accampamento militare dei Franchi".

Tuttavia se può essere confermata che la tradizione ne fa derivare il nome “Castelfranci” da "Castellum Fancorum" bisogna anche evidenziare che un castello medioevale inteso come "grande e maestosa residenza signorile" è storicamente opinabile. Sicuramente una rocca, una torre fortificata, sorta in una posizione di confine tra i ducati, teoria che si sposa con le informazioni fin qui evidenziate. Infine basti pensare ai lavori di ampliamento della piazza municipio, avvenuti agli inizi del 1900 che seguirono proprio alla demolizione della fortezza, se davvero vi fosse stato un Castello, nel senso proprio del nome, è discutibile che ne sarebbe stato approvato l'abbattimento, anche se - conoscendo Castelfranci - non è da escludere.

LA STORIA DEI MULINI

Nella foto il Mulino Baronale di Largo Soccorso ed il vecchio ponte, a contornare il Fiume Calore, fuoco della Societa' Castellese fino all'800.

Pertanto il vecchio Mulino Baronale - nelle mani del casato dei Brancia - rimaneva l'unico davvero in grado di offrire la molitura oltretutto sempre più cara. Ancora una volta il potere del sovrano che regna, sconfigge e trionfa sul popolo, piegandolo a rinunce, dazi e sacrifici.

Ma non è la fine della nostra storia. A seguito di anni di petizioni si arriverà ancora una volta, nel 1833, ad una nuova autorizzazione da parte di Ferdinando II "a costruire un nuovo molino comunale che fosse di rimpiazzo a quello costruito nel 1809 e divenuto inoperoso (Moliniello re la Terra) volendo assecondare i voti della popolazione stessa", nello specifico si autorizzava il comune a costruire il mulino sulla destra del fiume calore ai piedi del bosco di Baiano ed ad opera dell'ingegnere Marino Massari. Nacque così, nel 1835 il nuovo mulino comunale di Baiano, un mulino ad acqua a ruota orizzontale, con alla base i due grossi porticati, ancora visibili, utile per far defluire l'acqua verso il fiume, a sud del mulino invece la lunga struttura di palizzate in cemento e pietra funzionali per convergere le acque all'interno del mulino, il quale stavolta era un mulino fiero, forte e produttivo che ha ridato alla gente locale la loro dignità. Dal gergo di tale struttura il nome con il quale gli abitanti del luogo usano definire "la palata".

Perciò gli inizi del 1800 segnano a Castelfranci un primo importante passo di emancipazione ed indipendenza che si rispecchia nella storia dei mulini. Il mulino baronale ha rappresentanto lungo tempo il potere del sovrano, mentre il piccolo muliniello re la terrà simboleggiava il popolo, anche nella sua debolezza e nella sua sconfitta. Infine il terzo mulino di baiano basso, a rappresentare nella sua evoluzione la contemporaneità, nell'800 la contemporaneità di uno stato sociale in cambiamento che ridà al popolo il potere, ma non solo in quanto nel 1900 lo stesso - forte nel simboleggiare il progresso della contemporaneità, diverrà una centrale elettrica, addirittura una delle prime di tutto il territorio Irpino, centrale che verrà chiusa con la nazionalizzazione dell'energia elettrica nella seconda metà del 1956, chiusura che tuttavia non ha abbattuto il terzo mulino comunale, oggi l'unico a non essere un rudere ma, nella sua secolare contemporaneità, è divenuto in parte un ristorante elegante e raffinato ed in parte una piccola ed umile area pic-nic di ricreo.

IL 1900

Castelfranci, come nel resto dell'Irpinia, ha basato la propria economia sull'agricoltura, l'allevamento e con residuali attività di artigianato; l'agricoltura era basata su olio, frutta e cereali ma dominante era la coltivazione di viti e vigneti favorita da una morfologia del territorio e da condizioni climatiche che portano ad un vino particolarmente intenso, etereo, corposo e dal retrogusto persistente, che diventerà con il decreto n.72 del 25/05/1970 il Taurasi DOCG. E' così che Castelfranci, insieme alla limitrofa zona di Chianzano (comune di Montemarano) ha storicamente sfruttato per tutto l'inizio del 1900 la littorina Avellino-Rocchetta per trasportare la propria uva ed i propri vini, specialmente in Francia quando ancora i DOCG ed i DOC non esistevano.

Nell’anno 1903 Francesco Dickmann - di origine tedesca - progetta un piccolo impianto idroelettrico nei pressi del mulino di Baiano sicché il comune fu uno dei primi beneficiari dell'energia elettrica. La centrale elettrica funziona fino al 1965 allorquando la centrale idroelettrica fu assegnata all’Enel.

Negli anni 30 Castelfranci ospitava il principe ereditario Umberto di Savoia e il capo del Governo Benito Mussolini il quale finanzio' la costruzione dell’acquedotto poiché le due fontane pubbliche presenti, quella chiamata in gergo “Paradiso” (vicino al molino Baronale) e quella chiamata “de la Terra” (vicino al Molino omonimo) erano del tutto inadeguate e molto lontane dal borgo.

Il vicolo foscenella, nonché largo Soccorso e Piazza Municipio era il fulcro delle attività sociali del paese.

Nel 1980 Castelfranci accusa il colpo tremendo del terremoto, che rade al suolo - cancellando del tutto dalle mappe geografiche - numerosi comuni Irpini: Sant'Angelo dei Lombardi, Lioni, Teora, Conza e molti altri; Castelfranci come loro registrò numerosi crolli ma fortunatamente nessuna vittima. Inizia così l'esosa e lunga fase post-terremoto, caratterizzata da tre peculiarità e che interessa l'Irpinia in generale:

  1. L'emigrazione di numerosi padri di famiglia e giovani verso principalmente Svizzera, Germania, Regno Unito, USA, spinti sia dall'arretratezza economica Irpina, sia dalla paura del terremoto.

  2. Il piano della ricostruzione del terremoto interessa anche Castelfranci il quale assume una nuova configurazione urbana, determinando l'abbandono della cultura del vicolo e delle attività sociali che avevano connotato Castelfranci fin dalle origini e dando la nascita a quartieri quali Sant'Eustachio e via Vadantico, spostando inoltre il fulcro della vita sociale dai vicoli della foscenella a via Capogiardino.

  3. La feroce industrializzazione ed infrastrutturazione che interessa l'intera Irpinia, re-disegna notevolmente l'identità locale: vi è un importantissimo miglioramento strutturale delle abitazioni, le quali spesso sono state edificate senza considerare gli effetti migratori in corso; nasce un sistema infrastrutturale che collega l'Irpinia tra di essa e verso gli snodi viari Nazionali; vi è un fortissimo incentivo all'industrializzazione ed allo sviluppo in Irpinia del settore secondario, fino ad allora sconosciuto con la localizzazione di importanti industrie. L'agricoltura invece è l'unico settore il quale non ha una significativa crescita rispetto al periodo pre-terremoto, mantenendo un trend alquanto stabile.

Tuttavia oggi Castelfranci ha saputo ripristinare e restaurare parte dell'antico borgo, in particolare il borgo che va da San Pietro al via dei calabresi e sottocorte, anche taluni palazzi sono stati restaurati in maniera brillante tra i quali Palazzo Vittoli, oggi rinomato Hotel-Ristorante, palazzo Celli, palazzo Palmieri nonché il Mulino Comunale di Baiano.

Nel 1993 con il DM 11/03/1993 G.U. 72 - 27.03.1993 nasce la prima DOCG di tutto il SUD Italia e tale DOCG interessa proprio Castelfranci ed il suo vino rosso Taurasi DOCG, già doc dal 1970, insieme ad altri 16 Comuni Irpini. Questo storico evento getterà le basi per un ritorno all'agricoltura piu' consapevole.

IL 2000

Gli anni 00 di Castelfranci sono caratterizzati dalle conseguenze della ricostruzione del terremoto, l'economia è ormai incentrata sull'industria e sul commercio, fermo restando che l'agricoltura conserva il suo coerente spazio e proprio in questi anni inizia una leggera crescita il cui volano di sviluppo è proprio la viticultura dell'aglianico atta a Taurasi DOCG.

Negli anni '10 la crisi economica mondiale dei derivati subprime Statunitensi si ripercuote anche in Irpinia, in un primo momento con una forte rallentamento del comparto industriale, che porterà alla chiusura di piu' della metà delle sedi Industriali che si erano sviluppate alla fine degli anni '90, quindi anche il commercio e gran parte dell'attività locale subisce gli effetti negativi della crisi. Si arriva così ad oggi, con una situazione economica caratterizzata da un forte ridimensionamento della grande industria nata post-terremoto, con ricadute generali su tutto il tessuto economico che non riesce a svilupparsi in alcun settore, seppur si registra una leggera crescita agricola trainata principalmente dal Taurasi DOCG e dalle ulteriori denominazioni. La situazione attuale vede altresi' una costante e deleteria migrazione giovanile verso il Nord Italia. Lo scenario è così segnato da una infrastruttura infra-territoriale ancora notevolmente sotto sviluppata: i paesi Irpini hanno nel 2020 zero collegamenti binari via treno, una rete autostradale (Napoli-Canosa) che interessa significativamente pochissimi comuni, una rete viaria a scorrimento lento talvolta non sufficiente a spostamenti via bilico tra due paesi limitrofi, un sistema di infrastrutture in generale sotto sviluppato o peggio in una situazione di abbandono.

Castelfranci tuttavia può oggi vantare cantine di elevato prestigio che producono Taurasi rosso DOCG e campi taurasini di raro gusto sulla scena Italiana nonché i migliori - secondo diverse riviste di settore - dell'intera valle del Taurasi, pertanto essendo il taurasi rosso annoverato tra i migliori vini d'Italia, Castelfranci può vantare i propri vigneti tra essi.

Indiscutibilmente diviene di raro fascino la possibilità di poter bere l'eccellenze del Taurasi rosso DOCG nella valle di Castrum de Francis. Nella pagina CUCINA E VINI e Dove Pernottare vi aiutamo a capire come vivere al meglio tale esperienza.

CULTURA E TRADIZIONI DAL PASSATO CASTELLESE

Usi e costumi

Le tradizioni e le usanze, tramandate da una generazione all’altra, sono la testimonianza viva di una cultura contadina legata alla natura, alle stagioni, ai cicli della vita, ai riti religiosi e laici. Una cultura autentica, una cultura nella quale si esprime un senso identitario molto forte.

Nel XX secolo assistiamo ad un notevole incremento demografico e, soprattutto, a notevoli cambiamenti socioculturali. In un mondo che va modificandosi , le credenze popolari si affievoliscono mentre la comunità va aprendosi a nuove idee e costumi figli del progresso e dell’attuale globalizzazione. Mentre nel XIX e nella prima metà del XX secolo le cerimonie religiose, le celebrazioni laiche e i riti “popolari” rappresentavano le uniche occasioni per spezzare la monotonia della quotidianità, oggi la quotidianità è essa stessa monotona in ogni sua manifestazione. Il cambiamento della struttura economica porta con sé un cambiamento più vasto in ambito sociale. Lì dove esisteva una comunità, un senso di appartenenza che si articolava sulle credenze e sulla condivisione di “miti”, oggi esiste un bieco ricordo di quello che si era.

La vita sociale del nostro borgo nacque a ridosso del fiume Calore, così come il nostro paese andò sviluppandosi dal fiume. Quello che un tempo rappresentava il centro propulsore della vita del borgo, cioè il fiume stesso, oggi è divenuto un non-luogo. Una terra dimenticata, un ricordo sbiadito.

Se oggi è difficile ritrovarsi in quelle tradizioni, è ancora possibile, ascoltando gli anziani, rintracciare la nostra storia. Per quanto fosse una piccola comunità, Castelfranci seppe sviluppare delle tradizioni proprie, delle leggende proprie. Tenendo presente che l’economia era caratterizzata dallo sfruttamento della terra e dallo sfruttamento delle acque, quindi parliamo di un’economia a carattere agricolo, il borgo andò articolandosi in infinite attività differenti. Bottegai, mugnai, mercanti, banditori, sarti, agricoltori, braccianti occasionali e professionisti vari. Una società patriarcale e strutturata secondo i modelli economici delle regioni periferiche del sud Italia. Una società strutturata a modello piramidale, molto povera e poco incline ai grandi spostamenti.

I nostri usi e costumi, il nostro essere comunità, fu il frutto della tradizione orale. La tradizione, quindi, era il raccontarsi orale, questo raccontarsi presupponeva momenti di collettività. Da un punto di vista antropologico, molto importante fu il peso delle donne del paese. Era usanza, che le donne del paese (lavandaie) scendessero a mondare i panni giù al fiume, in prossimità del Mulino Baronale. Era usanza che le donne, mentre svolgevano le quotidiane faccende, cantassero. Le “cantilene” non erano semplici canti, ma era il modo più veloce per trasportare notizie. Le cantilene castellesi trattavano infiniti argomenti. Vi erano cantilene funebri, con le quali le donne evocavano ricordi del defunto, cantilene “mondane” che avevano il compito di trasportare notizie, cantilene per i matrimoni etc. tutto quello che avveniva, tutto quello che poteva essere raccontato veniva cantato. La stessa musica popolare, nelle nostre terre, non ha una radice propriamente religiosa. Il nostro piccolo mondo era caratterizzato dalla lentezza, da giornate occupate quasi completamente dal lavoro e il lavoro, occupava quasi tutto lo spazio del dicibile. In questo mondo, dove a farla da padrone fu la necessità, gli uomini andranno a creare riti che armonizzassero la loro vita. Tutto venne ritualizzato, ogni evento significativo: la nascita, il battesimo, le nozze, la morte e le varie festività. La comunità si creò tramite questi momenti. Momenti come la sfogliatura delle pannocchie, la raccolta delle olive, la raccolta de grano e la vendemmia divenivano momenti di festa. Momenti accompagnati da musiche e balli. Anche la mattanza del maiale diveniva un momento di pura gioia. Questi momenti segnavano la buona riuscita del lavoro, la fine dell’attesa. Riti come atti di comunità.

Il matrimonio venne formalizzato in atti rituali codificati. Prima del matrimonio, veniva esposto il corredo nuziale della sposa: un lungo corteo di donne portava tutti gli oggetti personali della futura sposa nella casa dello sposo, davanti al corteo c’era un suonatore di organetto e una donna che, dentro una cesta, portava l’abito dello sposo. Il giorno del matrimonio, le persone seguivano, come in una processione i due sposi fin dentro la chiesa. Era usanza consumare il rinfresco nuziale nella casa dello sposo, atto che simboleggiava anche il passaggio della donna dalla vecchia famiglia a quella nuova. Un altro rito significativo era lo “Puorco re ‘nduono”. Una costumanza legata al culto di Sant’Antonio. Il comitato di Sant’Antonio riceveva in dote un maialino che, a sua volta, veniva lasciato libero all’interno del borgo. Il maialino diveniva, almeno sul piano ideale, l’identificazione della stessa comunità, tant’è che veniva nutrito da tutte le persone della borgata. Soltanto quando raggiungeva la dovuta robustezza veniva messo all’asta. Il più delle volte, il maialino diveniva un banchetto collettivo, un rito di aggregazione. Questo rito di collettività negli anni ha mutato la sua forma, conservando nella sostanza il fine di unire la comunità. Il 17 gennaio, nel cosiddetto giorno di Sant’Antuono, gruppi di volenterosi e audaci paesani si organizzano in paranze di maschere e suoni condotti “ra lo capo ra ballo”, mascherato da Pulcinella. Accompagnati dal ritmo della tarantella, percorrendo le vie del paese. I cittadini, che imbattendosi nella paranza, vengono accarezzati dal bastone del “capo ra ballo” sono costretti (di buon cuore s’intende) a fare un ‘offerta. Le donazioni così raccolte verranno utilizzate per l’organizzazione del Carnevale Castellese. Quello che più di tutti è rimasto inalterato nel tempo è, certamente, il rito della vendemmia. Il valore storico e antropologico della vendemmia si è tramandato da tempi antichi fino ad oggi. Generazione dopo generazione, la vendemmia è uno dei pochi riti che ha superato indenne le varie modificazioni avvenute nelle nostre terre. Per molti aspetti assume ancora oggi un ruolo, un valore di “momento rituale” denso di significato sociale e di comunicazione. Ancora oggi uomini e donne lavorano insieme, ancora oggi amici, parenti e conoscenti si riuniscono nelle vigne e trasformano il lavoro in un momento di festa collettiva. All’interno del rito della vendemmia ci è, da tradizione, un sotto-rito. Il momento del pranzo, il rito nel rito. Le donne giungevano nel campo con ceste piene di vivande, disponevano le tovaglie sul prato e richiamavano l’attenzione dei lavoratori. La vendemmia era, ovviamente, un momento di lavoro ma riusciva ad assumere un valore simbolico più elevato proprio perché si trasformava da mero rito della fatica a rito della condivisione e della soddisfazione collettiva. Tutti si aiutavano vicendevolmente.

Nel crearsi come comunità, un ruolo importante lo giocarono anche le “superstizioni” . Come per la grecità classica, che usava il mito per spiegare il mondo e il comportamento, le leggende paesane avranno un ruolo centrale. Le superstizioni rappresentano un codice comportamentale, un insieme di significati razionali e irrazionali, che si sono sedimentate nella coscienza delle persone e si sono tramandate nel tempo. Un labirinto nel quale ragioni pratiche, sentimenti religiosi e rimanenze pagane andarono fondendosi. Tutte queste superstizioni erano completamente immerse nella realtà che le persone vivevano. Non semplici racconti ma verità. momenti anche pedagogici. Basti pensare al famoso “pescono re lo Riaolo”. Zona pescosa ma altrettanto pericolosa. Si racconta che spesso, vicino a questa roccia, le persone videro una ombra maligna, tetra, il DIAVOLO. Non poche persone, nella storia di Castelfranci, sono morte in quel punto del fiume. Non è illogico credere che questo mito dovesse fungere come deterrente soprattutto verso le nuove generazioni.

Altre superstizioni presenti nel nostro borgo costituiscono patrimonio comune con altre comunità limitrofe. Il lavoro della terra non aveva confini e quindi, le nostri genti, condividevano vicende storiche e formazioni culturali. Un altro elemento di raccordo con le comunità limitrofe furono, come in gran parte del Sud Italia, i matrimoni.

Tra le superstizioni più sentite che possiamo ricordare:

  1. Mazzamauriello: alcuni sostenevano che fosse un angelo scacciato, altri che fosse un folletto. Secondo la tradizione, questo folletto s’introduceva nelle soffitte delle case creando non pochi problemi. Secondo alcune versioni più moderne, costui, volendo, poteva elargire ricchezze se si fosse sentito ben ospitato.

  2. L’ombra: è un folletto maligno, creatura della notte, creatura demoniaca seconda alcuni racconti. Questo essere maligno si introduceva nelle case delle persone, nottetempo, e si appollaiava sull’addome delle persone. Il malcapitato sentiva senso di oppressione e soffocamento. Per liberarsene, le persone recitavano una sorta di preghiera. “tre, tre patriarca, quarto, la luna e lo sole. Aprete, terra, Gliuttete satanasso! Anema persa, cuorpo cunsumato, vavattenne ra tuorno a me.

  3. La Janara: anch’essa una creatura notturna, la quale aveva l’abitudine di recarsi, la Vigilia di Natale, nelle stanze in cui dormivano i bambini. A questi bambini “sturciniava re cosce” o storceva gli occhi. Per difendersi da lei, era solito posare una scopa di saggine dietro l’uscio principale. La janara era tenuta a contare tutti i filamenti della scopa, così facendo la notte passava e la stessa era costretta ad andarsene. Secondo alcune versioni, bisognava anche lasciare la spazzatura dentro, in quanto, per dispetto la janara l’avrebbe disseminata dentro casa.

  4. L’occhiatura: è una pratica molto usuale in tutto il sud. Si faceva e si fa tutt’ora ricorso quando si ritiene di esser stati colpito dal “malocchio”. Un complesso di azioni che la “guaritrice” porta avanti per liberare il malcapitato dalla jattura. Per comprendere di che tipo di malocchio si tratta, la guaritrice versa dell’acqua in un piatto e, in un secondo momento, fa cadere tre gocce di olio nella stessa. il comportamento dell’olio a contatto con l’acqua determina che tipo di malocchio è; chi l’ha mandato, che forma ha.

  5. La fattura: una pratica magica anch’essa molto presente nel sud in generale. È un atto frutto di sentimenti conflittuali come l’amore e l’odio. Il maleficio va espletato tramite l’associazione di un osso umano o di un cane nero con una ciocca di capelli della persona a cui esso è rivolto. Il sortilegio poteva essere sciolto solo da un mago che operava uno scongiuro usando un qualsiasi panno del malcapitato.

  6. La perata: la terra è stato a lungo l’unica fonte di sostentamento per tante persone. Nel primo 900 non erano pochi i furti di prodotti agricoli. Per molto tempo, la Perata, divenne l’unico strumento di difesa. Tale maleficio era finalizzato alla morte del ladro. Per compierlo, bisognava prelevare la zolla di terra con l’orma del piede. Questa, andava fatta essiccare vicino al fuoco e, dopo l’essiccazione, andava sbriciolata. In questo modo si causava la morte del ladro. il maleficio poteva essere interrotto solo sciogliendo l’orma nell’acqua e restituendola alla terra.



BIBLIOGRAFIA

BIBLIOGRAFIA

Per la ricostruzione della storia di Castelfranci e per approfondirne le tematiche qui solamente accennate si rimanda alla lettura dei seguenti libri:

  • Saldutti Enzo, Pullo Giuseppe, Castelfranci Storia e immagini, 2003.

  • Palmieri Luigi, La storia di Castelfranci dalle origini ai tempi attuali, 1970

  • Landolfi Pasquale, Il diritto proibitvo dei molini. Contributo alla storia di Castelfranci, 1921.

  • Passaro Giuseppe, Cronotassi dei vescovi della diocesi di Nusco. I vescovi della diocesi di Montemarano aggregati a quella di Nusco nel 1818, 1976.

Si ringraziano gli autori.